«L’incontro con donne che sanno sperare contro ogni speranza, o con persone semplici che vivono la fede con più passione ed entusiasmo di noi in Italia, o ancora con una realtà dura che ci fa capire che non siamo supereroi e dobbiamo accettarlo, ecco: questo incontro spiazza, ti resta dentro…». Laura Carniel, con il suo sorriso fresco e le mani che si muovono come alla ricerca delle parole giuste, prova a spiegare così l’impatto che ha avuto su di lei la missione. Un’esperienza – che sta continuando – a Huacho, in Perù, dove Laura è arrivata nel novembre del 2011 per seguire il progetto “Ri-abilitare a Huacho” e dove ha imparato presto che, mentre si cerca di guarire gli altri – nel suo caso i ragazzi disabili, ma anche i diseredati scesi dalla selva e dalla sierra in cerca di fortuna -, quasi sempre capita di venire guariti a propria volta.
Laura Carniel, 35 anni, dal 2004 fa parte della Cml, Comunità missionarie laiche, un’esperienza fiorita nel contesto dell’animazione missionaria del Pime di Busto Arsizio (Va) e costituitasi in associazione nel 1989. Ben presto la Comunità (che oggi ha sede a Legnano, nel Milanese) si organizzò per includere il servizio in missione, cominciando con la Cambogia, a fianco del Pime, per approdare poi nel 2003, dopo anni di collaborazione nell’animazione missionaria con l’arcidiocesi milanese, all’affiancamento dei suoi missionari fidei donum in Camerun. Nella stessa direzione va la più recente presenza in Perù.
«Ho coltivato la passione per la missione fin da adolescente, quando ascoltavo le testimonianze dei padri “di passaggio” in Italia», racconta Laura. «Scelsi di studiare fisioterapia proprio nell’ottica di una possibile partenza, anche con una Ong, ma pian piano capii che la mia esigenza non era quella di un’esperienza temporanea». Venne così la scelta di seguire un cammino vocazionale e poi, nel 2001, l’incontro con Antonella, allora responsabile della Cml. «Dopo un periodo di conoscenza, capii che quella proposta “incrociava” la mia vita ed entrai in comunità: siamo otto donne, viviamo con i nostri stipendi e finanziamo le attività in missione attraverso la Onlus “Cam to me”».
La missione arrivò nel 2010. «Mi proposero un progetto in Perù, dove già i fidei donum milanesi operavano nella diocesi di Huacho, e in particolare nella parrocchia Jesús Divino Maestro», ricorda Laura. «Lì, la Caritas stava orientando l’attenzione alle persone con disabilità, in un contesto in cui la competenza degli operatori sia nell’ambito sanitario che in quello scolastico, sul fronte dell’handicap, è fortemente carente. Una mamma con un figlio disabile non sa a chi rivolgersi, mentre la povertà e l’isolamento aggravano la situazione: i bambini disabili sono gli ultimi degli ultimi, un peso economico di cui ben pochi si curano».
Alla giovane missionaria si chiedeva, sulla base della sua esperienza professionale specifica, un ruolo di guida delle volontarie locali e un accompagnamento alle famiglie toccate dall’handicap, nell’ottica della riabilitazione ma anche della formazione e della prevenzione di danni ulteriori.
«Il primo passo, per me, fu conoscere la realtà di Huacho e le sessanta famiglie con disabili a carico che facevano riferimento alla parrocchia», continua Laura. «Iniziai le visite e il lavoro di riabilitazione e consulenza nelle strutture sanitarie e nelle scuole speciali, incontrando genitori e insegnanti». Presto, tuttavia, fu chiaro che gli ambiti di impegno sarebbero stati anche altri: «Una volta inserita nella Caritas, a fianco della responsabile locale, il mio servizio si è via via allargato su vari fronti, dall’attenzione agli anziani fino all’accoglienza dei “casi sociali” che costantemente si presentano in parrocchia».
Il contesto in cui Laura opera, infatti, è quello tutt’altro che semplice di una città – 170 mila abitanti, capoluogo della regione a nord della capitale Lima – in forte evoluzione: «Se il centro è abitato da una fascia sociale medio-alta, la periferia, dove viviamo noi, è una zona in fase di espansione, caratterizzata da quelli che vengono chiamati asientamentos humanos, letteralmente “insediamenti umani”, quartieri urbani marginali fatti di baracche fatiscenti dove la vita è a dir poco precaria». Ad abitarli sono disperati che scendono dalla selva e dalla sierra in cerca di lavoro e di una vita migliore e che, invece, «si ritrovano in pieno deserto, costretti a vivere almeno per qualche anno senza acqua, né luce, né sistema fognario, in case di giunchi e cartone, privati dei servizi essenziali».
A rivolgersi alla Caritas sono disoccupati, cittadini che chiedono una mediazione con le istituzioni – spesso i nuovi arrivati non possiedono alcun documento di identità -, ma anche persone che hanno bisogno di un accompagnamento familiare o di una presa in carico umana e spirituale, perché attraversano un momento di crisi. «E poi c’è l’emergenza: quando si vive in una condizione di pura sussistenza, senza risparmi, qualunque imprevisto – una malattia, un incidente, un funerale in famiglia – diventa un problema insormontabile», spiega ancora Laura. Anche perché, in generale, il contesto familiare è «altamente disgregato» e il modello di nucleo allargato, che in certi casi costituisce una ricchezza, altre volte rappresenta un limite «perché i problemi si sommano: in una casa già povera, capita che arrivino i parenti dalla selva a cercare lavoro e si fermino come ospiti indefinitamente…». E la situazione sociale si fa esplosiva: «Dove c’è fame, la violenza aumenta», constata la missionaria con un sospiro. «A Huacho i furti e le aggressioni hanno avuto un’impennata, a dettar legge sono le pandillas, le bande giovanili, e le mafie delle costruzioni, attorno a cui c’è un giro di corruzione spaventoso». Per dare un’idea del clima che si respira, Laura racconta di una sparatoria avvenuta qualche mese fa proprio davanti alla parrocchia…
In un posto così difficile, com’è stato l’impatto con i peruviani? «A livello umano, ho sperimentato un’accoglienza calorosa e un grande affetto, misto anche a una sorta di “istinto materno di protezione”, essendo io una donna sola. D’altra parte, ho anche dovuto imparare a “purificare” le relazioni, che a volte sono intrise di aspettative: da una missionaria, oltretutto bianca, ci si aspetta che sia ricca, in qualche occasione ci si sente autorizzati ad approfittarsene… Insomma, laddove la quotidianità è fatta di situazioni limite, bisogna imparare a gestire tante cose». E capita anche di cambiare le proprie, di aspettative. «Con il progetto “Ri-abilitare a Huacho” è stato così. Era nato con un taglio specifico sull’handicap, ma pian piano ci siamo lasciati interpellare da una realtà bisognosa di essere “riabilitata” più in generale. È chiaro, non possiamo risolvere noi i problemi, però la nostra condizione ci permette di esporci per la nostra gente, per provare a “riabilitare” le relazioni tra cittadini e istituzioni, o all’interno delle famiglie, dove impera il machismo, che arriva spesso alla violenza», racconta Laura. Per lei la missione oggi è anche «vivere a fianco di grandi donne che tengono in piedi le famiglie sebbene siano relegate in un ruolo quasi di serve, con ben poco diritto di parola, e cercare di risvegliare le coscienze sul rispetto e la liberazione umana». Certo, «ho dovuto imparare la diplomazia, la pazienza, la delicatezza…», confessa. Il rapporto umano è il fulcro dell’impegno anche con i giovani, «che nel diventare grandi sono lasciati a sé e hanno bisogno del confronto con un adulto che li accompagni».
“Accompagnare”: una parola che ritorna anche quando si entra nel merito della missione in senso strettamente spirituale ed ecclesiale: «La nostra parrocchia, creata vent’anni fa dai primi fidei donum, sta vivendo il passaggio alla comunità locale, dopo che nel 2011 l’ultimo sacerdote milanese è rientrato in Italia. Un passaggio delicato, in un contesto di Chiesa molto gerarchica e “sacramentalista”: si tende a impartire più battesimi e cresime possibile, persino nelle scuole, ma poi manca un cammino di fede che accompagni i cristiani nella loro crescita spirituale». E così, Laura ha cominciato a «camminare accanto» alla sua gente, «anche in contrapposizione a uno stile di missione spesso un po’ troppo assistenzialista». E l’incontro non è mai a senso unico.
«Umanamente ho vissuto una “riabilitazione reciproca”, ho sperimentato l’aspetto del ricevere e imparato a ridimensionare le mie aspettative su me stessa, le mie ambizioni… Dal punto di vista spirituale, poi, nel mio cammino di fede è cresciuta molto la dimensione della speranza, che è tipicamente cristiana ma che, nel confronto con una costanza e una passione mantenute in condizioni estreme, assume una concretezza spiazzante».
Con un sorriso che illumina il suo viso da bambina, Laura sceglie di spiegarsi attraverso la sua esperienza da fisioterapista: «Diciamo che ho imparato a valorizzare il movimento di una falange quando vedo un braccio rotto, o ad avvertire con soddisfazione la contrazione di un muscolo, quando l’arto non si muove ancora».
Fonte: http://www.missionline.org/index.php?l=it&art=5530